In questo articolo pubblicato su huffingtonpost.it Laura Eduati racconta del flusso di donne che si recano all’estero per eseguire un aborto terapeutico, cioè oltre il terzo mese di gravidanza. Anche se la legge italiana lo prevede a certe condizioni, il ricorso all’aborto terapeutico è per molte italiane impedito dall’obiezione di coscienza, dall’impreparazione dei medici e dall’inefficienza del sistema sanitario nazionale. Accade così che all’Ospedale di Nizza non accolgano più le pazienti italiane.

Aborti terapeutici, le donne costrette ad andare all’estero

Al reparto di ginecologia dell’ospedale L’Archet di Nizza sono categorici: «Non accettiamo più pazienti italiane. Ormai erano quasi la metà delle donne che chiedevano un aborto terapeutico. Oggi consigliamo di andare a Marsiglia o a Saint Etienne».

Fino a poco tempo fa, nei forum online, L’Archet era una delle mete consigliate alle donne incinte che ricevevano la notizia di portare in grembo un bimbo gravemente malformato. Ma anche a coloro che avevano deciso di interrompere una gravidanza prima del novantesimo giorno, e che volevano evitare di incappare negli obiettori di coscienza.

Il ginecologo Ricardo Silva lavora allo Spital Oberengadin, nel Cantone dei Grigioni, vicino al confine italiano: «Il 40% delle mie pazienti è italiano. Ho il dovere di aiutarle, ma spesso ho la sensazione che i vostri medici spingano queste donne a venire qui per lavarsene le mani».

Nel caso un feto sia malato, in Svizzera è possibile interrompere la gravidanza entro la ventesima settimana ovvero due settimane prima che in Italia. «Penso che preferiscano andare all’estero perché ottengono informazioni precise e non vengono colpevolizzate», continua Silva, convinto che la diagnosi prenatale in Italia spesso venga «svolta tardivamente da ginecologi antiabortisti per non lasciare alle pazienti la possibilità di ricorrere all’interruzione».

In Gran Bretagna
la situazione non è migliore: le italiane sono seconde soltanto alle irlandesi (ma in Irlanda l’aborto è ancora penalmente perseguibile) nella classifica delle donne non britanniche che spendono fino a 780 sterline, come nella clinica Leigham di Londra, anche soltanto per ottenere una anestesia generale e non dover rimanere sveglie, spesso senza l’ausilio di antidolorifici, come invece accade spesso nelle nostre strutture sanitarie.

«Esistono metodi avanzati per interrompere una gravidanza, come la pillola abortiva Ru486, eppure molti miei colleghi non li utilizzano», denuncia Mirella Parachini, ex ginecologa del San Filippo Neri e vicepresidente del Fiapac.

Dalla relazione sulla legge 194, inviata oggi alle Camere dal ministero della Salute emerge che oltre otto ginecologi su dieci in alcune regioni del Sud sono obiettori di coscienza, e non praticano aborti. Si evince anche che nel 2010 a livello nazionale c’è stata una stabilizzazione generale dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi e gli anestesisti, dopo un notevole aumento negli ultimi anni. Dal 70, 7 per cento dei ginecologi ospedalieri obiettori nel 2009, si è leggermente scesi al 69,3. Ma sono sempre cifre altissime.

“I dati reali sono ben peggiori» dice Silvana Agatone, ginecologa all’ospedale Sandro Pertini di Roma e presidente della Laiga, associazione di medici che vigila sull’applicazione della 194.

«Nel Lazio per esempio siamo riusciti a ricostruire che l’obiezione dei ginecologi arriva al 91,3% e non è l’80,2% come indicato sulle carte ufficiali». Nella regione soltanto in dieci strutture su 31 è possibile interrompere la gravidanza, e il numero scende a quattro quando la richiesta è un aborto terapeutico. E questo nonostante la legge obblighi tutte le strutture a garantire il diritto ad abortire. L’associazione Luca Coscioni, per esempio, sta preparando un esposto contro la Regione Lazio e le aziende sanitarie fuorilegge per interruzione di pubblico servizio.

«Le università non formano nuovi ginecologi all’interruzione della gravidanza, noi stiamo andando in pensione. Credo che entro tre o quattro anni l’aborto, specialmente terapeutico, non sarà più possibile in Italia», conclude Agatone. Eppure secondo il ministero, nel documento che introduce all’ultima relazione sulla 194, «il livello dell’obiezione di coscienza non ha una diretta incidenza sul ricorso all’Ivg».

I racconti di molte donne che hanno interrotto una gravidanza dopo il novantesimo giorno sono agghiaccianti. Laura Fiore ha scritto un libro, “Abortire tra gli obiettori” (Tempesta ed.), sulla sua drammatica esperienza al Policlinico Secondo di Napoli.

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